Nella lingua ebraica la parola Carmelo significa giardino: la famiglia religiosa legata nelle sue origini al monte Carmelo ha certamente visto sbocciare al suo interno fiori meravigliosi di santità.

Il Servo di Dio Guglielmo Giaquinta ha attinto a piene mani da questo tesoro spirituale, in particolare ha trovato tante affinità e tanta ispirazione dai santi della riforma dell’ordine Carmelitano, tanto da affermare: “Noi ci sentiamo spiritualmente delle anime essenzialmente carmelitane[…]; ciascuno può avere le sue preferenze tra le amicizie della Chiesa trionfante, ma la nostra famiglia generalmente ama e studia i fiori sbocciati nel Carmelo[1].

In questo giardino ricco di fiori, ne scegliamo quattro che riteniamo siano stati più significativi, cercando di cogliere per ciascuno di essi quell’aspetto che in particolare il Servo di Dio ha evidenziato come perla preziosa per la sua vita spirituale e per il carisma.

Anzitutto ci sono i due grandi fondatori dell’Ordine: santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce.

Alla scuola della prima, Giaquinta ha cercato di imparare lo stile di una preghiera intesa come dialogo di amicizia con Dio, dal quale sappiamo di essere amati. La preghiera, intesa come alimento fondamentale per una profonda vita interiore, è l’anelito verso il mistico monte del Carmelo, identificato con l’anelito verso la santità: “Deve esserci in noi l’anelito verso la santa montagna della preghiera, verso il dolce rimanere soli con lo Sposo delle anime nostre”[2].

Un giorno gli fu chiesto di parlare della preghiera ed egli disse che, tra le tante descrizioni possibili, quella che sentiva più vicina alla sua esperienza era costituita da tre momenti: il desiderio dell’incontro con Dio, il tempo dell’incontro vero e proprio, la nostalgia dell’incontro vissuto, che fa nascere il desiderio di un nuovo incontro. Dialogo, incontro, amicizia, ma anche concretezza, perché entrambi concordano nella convinzione che la preghiera autentica spinge ad uscire da sé, ad andare verso i fratelli.

Giaquinta citava con frequenza san Giovanni della Croce a proposito della mistica del tutto e del nulla: in questo accostamento di opposti Giaquinta coglieva il cuore di una vera vita mistica, che è anzitutto stare di fronte a Dio nella consapevolezza di essere nulla, ma nella certezza di poter trovare in Lui il tutto. È facile riconoscere in Giaquinta questi tratti, anzitutto nella sua vita e poi nel suo esercizio di direzione spirituale: accogliere la dialettica tutto-nulla è stato il trampolino di lancio verso le alte vette della santità per se stesso e per le anime che ne hanno sperimentato la paternità, traducendo queste due parole in umiltà, docilità, affidamento, disponibilità fino alla consumazione alla adorabile volontà di Dio. Tale dinamica è stata vissuta da Giaquinta come percorso di conformazione a Cristo e alla sua kenosi: come Egli da Dio (Tutto) si fece uomo (nulla), così l’uomo che riconosce la sua piccolezza diventa capace di accogliere la pienezza della vita divina. È la via dell’umiltà, che per essere percorsa necessita di un lavoro interiore intenso, continuo, un ininterrotto esercizio di mortificazione, che è intesa da Giaquinta come ricerca assidua della volontà di Dio e di adesione assoluta ad essa, che porta inevitabilmente alla Croce, da scegliere e abbracciare con generosità; e si serve delle parole che il Dottore Mistico scrive nella Salita del Monte Carmelo per commentare l’invito di Gesù alla sua sequela: “L’anima deve essere propensa: non al più facile, ma al più difficile; non al più saporito ma al più insipido; non al più dilettevole, ma al più disgustoso… Non c’è forse in questo la corrispondenza piena all’invito di Gesù: Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso…?”[3]

Il terzo “fiore” è la piccola Teresa di Lisieux: Giaquinta era affascinato dalla giovane carmelitana, che, a dispetto della sua età, ha vissuto con grande profondità il mistero di Cristo. Certamente possiamo dire che insieme a san Francesco di Sales, Teresa è stata colei che più direttamente ha ispirato a Giaquinta l’idea che la via della santità è accessibile a tutti, a ciascuno secondo le proprie capacità e i doni ricevuti da Dio. Si serve[4] proprio dell’immagine dei due bicchieri, usata dalla giovane santa, quando ella racconta che la sorella Paolina per farle comprendere che la perfezione vissuta da ciascuno è commisurata alle personali capacità, così come bicchieri due bicchieri di diverse capacità saranno entrambi pieni, nonostante la quantità di liquido contenuto sia diversa. C’è una sola santità, dunque, ma è da tutti raggiungibile, nella misura in cui si ha la forza e la perseveranza di ricominciare confidando nell’amore infinito del Padre, che è sempre pronto a sostenere e accogliere chi si mette sinceramente in cammino.

Ma c’è qualcosa di più intimo che li accomuna: il desiderio di prendere parte attivamente all’opera redentiva di Cristo, l’una stando ai piedi del Crocifisso per raccogliere ogni goccia di sangue e riversarla sull’umanità, l’altro condividendo con Cristo il suo “Sitio”, espressione del desiderio ardente di rivelare a tutti gli uomini l’abbondanza dell’amore di Dio, il tormento della salvezza e della santificazione di tutte le anime.

L’ultima, ma non certo la più piccola, è santa Elisabetta della Trinità, che ha aiutato il Servo di Dio a comprendere la vita cristiana come inabitazione della Trinità nel cristiano. Suor Elisabetta ha fornito il linguaggio, le parole ad una esperienza a lungo percepita, come un’intuizione lieve ma certissima, che la santità è la vita di Dio Trinità in noi, la divinizzazione, è essere portati nel seno della Trinità per essere immersi nel circuito dell’amore divino. Spesso il Servo di Dio citava la preghiera “Elevazione alla Trinità”, ne commentava il testo quasi commuovendosi al pensiero che l’anima dell’uomo potesse contenere la Trinità divina.

A questo punto – dice Giaquinta alla fine di una meditazione del ’64 – mi sembra logico e tanto bello, leggere la preghiera di Suor Elisabetta della Trinità che indica lo sforzo suo di ricercare questo punto di contatto tra la sua anima e la Trinità dimorante in lei. Il quadro non sarebbe completo se non la leggessimo, questa preghiera, alla luce, appunto, delle riflessioni fatte sulla nostra partecipazione alla vita trinitaria: Mio Dio, Trinità ti adoro, aiutami a dimenticarmi interamente per fissarmi in Te, immobile e quieta come se la mia anima già fosse nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace né farmi uscire da Te. […] Fuoco consumante, Spirito d’amore, discendi in me perché si faccia nella mia anima, quasi una incarnazione del Verbo, che io sia un prolungamento di umanità in cui Egli possa rinnovare tutto il suo mistero. E Tu o Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura, coprila della tua ombra, non vedere in esse che il diletto nel quale hai posto le tue compiacenze. Miei tre, mio tutto, beatitudine mia, solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a voi come una preda, seppellitevi in me, perché io mi seppellisca in voi in attesa di venire a contemplare nella vostra luce, nell’abisso delle vostre grandezze e così sia”.[5]

La sintonia di Giaquinta con questi (e tanti altri) santi a qualcuno potrebbe far storcere il naso, perché in fondo fa emergere che il Servo di Dio non ha inventato nulla di nuovo. Eppure in questa sintonia-sinfonia possiamo vedere qualcosa di più: ciò che lo Spirito suggerisce ad una sola persona non appartiene più al singolo, ma è per il bene di tutti, appartiene a chiunque sia disposto ad accoglierlo.

Uno solo è lo Spirito, sempre lo stesso, che lungo i secoli lega i cuori dei santi in un vincolo di amicizia che supera il tempo.

 

 

Cristina Parasiliti

 

[1] G.Giaquinta, Programma di vita spirituale delle Oblate Apostoliche, Edizioni Pro Sanctitate, 37.

[2] Ibid.

[3] G. Giaquinta, Programma minimo di vita spirituale, 19675, 23.

[4] Cfr. G. Giaquinta, Santi ci si nasce o ci si diventa?, Roma 1957, 21-24.

[5] G. Giaquinta, Lo Spirito Santo, inedito.