“Seminate, seminate, qualche cosa nascerà”: un’esortazione dal tono discreto come è quello di una perla solitaria lasciata lì per caso … che più e più volte abbiamo sentito pronunciare da Mons. Giaquinta. Un invito simpatico, eppure tanto impegnativo, rivoluzionario, che lui da padre ha consegnato ai suoi figli quasi testamento spirituale e insieme operativo.

La “seminagione”, intesa come annuncio della buona novella e come testimonianza di vita, è un preciso compito di tutti i cristiani che in forza del Battesimo partecipano alla missione stessa di Gesù. Per i membri “Pro Sanctitate” l’annuncio e la testimonianza della santità hanno la valenza di una vocazione specifica e, con loro, noi Oblate siamo chiamate a inserirci ancora più radicalmente in questa dimensione, in quanto portiamo il nome proprio di “Seminatrici di speranza”.

A tutte viene spontaneo riandare al testo carissimo di Mons. Giaquinta edito nel 1972, quando il carisma andava assumendo la forma di una piena maturazione e completezza, per poter assaporare oggi con spirito nuovo il gusto della seminagione e ritrovare forse lo slancio delle origini.

“Il chicco gettato in terra ha sofferto il suo inverno, è cresciuto, tenero germoglio, sino allo stelo fragile ma sicuro, ha dato vita alla spiga da cui è poi maturato il grano e la gioia della mensa” (G.G., Seminatrici di speranza, pag. 35). Così il “Padre” vedeva la nascita del piccolo gruppo di consacrate, mentre ci consegnava il significato più vero e la dinamica perenne del nostro essere Oblate.

“L’Oblata sente in sé il desiderio di attuare tutto questo (che il divino lamento non rimanga senza eco e risposta lungo la storia degli uomini), decide di abbandonarsi all’intima spinta di donazione operata interiormente dallo Spirito Santo e accetta di inserirsi vitalmente nella missione redentiva di Cristo e di diventate così un’anima corredentrice. Essa si trasformerà in apostola di quell’amore redentivo che il Padre ci ha manifestato in Gesù Cristo; sarà di conseguenza una vera rivoluzionaria dell’amore divino e una seminatrice di speranza (Id., pag. 42).

Seminare, dunque; ma che cosa? Di quale seme siamo ricche, da poterne spargere a piene mani attorno a noi? Certamente il seme della testimonianza di vita, in qualunque situazione ci troviamo: di una vita donata per gli altri e non trattenuta per noi stesse, di una vita che ha scommesso sulla santità al di là della propria naturale fragilità. E poi il seme della preghiera: il valore della impetrazione quale profonda solidarietà con tutti i nostri fratelli, il segreto della comunione con Dio che si fa simpatia con il mondo intero. Non da ultimo il seme della povertà: quando ci sembra di non avere più niente da dare, possiamo ancora offrire il nostro limite, l’età avanzata, la sofferenza, il dolore. Consapevoli che il piccolo grumo che siamo va a confluire nel fiotto di sangue sgorgato dal costato del Crocifisso, trasfigurato nella Risurrezione.

“Le Oblate Apostoliche di oggi, come quelle dell’ormai lontano 1947, – leggiamo nel testo citato – continuano ad essere seminatrici di speranza e suscitatrici di energie nuove, soprattutto attraverso l’azione missionaria” (Id., pag. 60). Quasi ci sorprende la forza di questa affermazione del “Padre”, che ha basato tutta la sua fondazione su uno sguardo di fede profetico e lungimirante; ma una cosa è certa: dobbiamo ancora fidarci di lui. Tutt’al più possiamo rileggere le sue parole in forma interrogativa: continuiamo ad essere seminatrici di speranza? E magari trovare anche una risposta attuale alla sua domanda iniziale: “C’è ancora un posto per esse nell’impegnativa rivoluzione dell’amore?” (Id., pag. 35).

Marialuisa Pugliese