La Costituzione della Repubblica italiana appartiene alla categoria di quelle cosiddette “rigide”, perché non può essere modificata, nemmeno in parte, da una legge ordinaria. Per abrogare o cambiare anche una sola parola della Costituzione occorre un procedimento complesso: la legge di modifica, approvata una prima volta dalle due Camere, dopo un intervallo non inferiore a tre mesi viene sottoposta ad una seconda votazione. (La doppia deliberazione, e l’intervallo che deve intercorrere tra la prima e la seconda, hanno lo scopo di impedire modifiche non sufficientemente ponderate, decise sull’onda di emozioni o di circostanze contingenti). Inoltre, per cambiare la Costituzione si ritiene necessaria una maggioranza qualificata. Per tale motivo, se nella seconda votazione non si è raggiunta la maggioranza di due terzi dei votanti, la legge non entra in vigore, ed entro tre mesi può essere sottoposta al giudizio del popolo mediante un referendum confermativo.

Con il referendum confermativo del 20 e 21 settembre prossimi saremo chiamati a dire se approviamo le modifiche alla Costituzione contenute in una legge approvata nel mese di ottobre 2019. Tali modifiche riguardano gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione, ed hanno tutte ad oggetto la riduzione del numero dei parlamentari.
Il primo e il secondo punto del quesito (modifiche agli articoli 56 e 57 cost.) prevedono una considerevole riduzione (circa il 35,6 %) dei membri del Parlamento eletti dal popolo. Infatti i deputati, attualmente seicentotrenta, saranno ridotti a quattrocento, e i senatori, attualmente trecentoquindici, scenderanno a duecento. Per il Senato, che è eletto su base regionale, sarà conseguentemente ridotto il numero minimo dei senatori da attribuire a ciascuna regione. Attualmente, nessuna regione può averne meno di sette, all’infuori del Molise, che ne ha due, e della Valle d’Aosta, che ne ha uno. Per queste due regioni non ci saranno cambiamenti, mentre per tutte le altre, e per le province autonome di Trento e Bolzano, il numero minimo di senatori scenderà da sette a tre.

Le ragioni del sì

  1. Diminuire il numero dei parlamentari comporta un risparmio di spesa pubblica pari a circa cento milioni di euro l’anno. 
  2. Con questa riduzione l’Italia si allineerebbe agli altri paesi d’Europa, che hanno un numero di parlamentari molto inferiore al nostro.
  3. Verrebbe impedita la formazione di gruppuscoli di minima consistenza, che possono svolgere un’azione di disturbo.
  4. Il Parlamento funzionerebbe meglio, perché non vi sarebbero più membri che non hanno alcun incarico nelle varie commissioni (si sostiene che la mancanza di un incarico abbia come conseguenza un elevato tasso di assenteismo)

Le ragioni del no

  1. Il risparmio sugli stipendi dei parlamentari non sarebbe di cento milioni l’anno, ma di una cinquantina. Inoltre, le maggiori spese non sono per gli stipendi, ma per il funzionamento del Parlamento: sedi, servizi, personale, e queste spese rimarrebbero invariate.
  2. Attualmente, su una popolazione di poco superiore ai sessanta milioni, vi sono un deputato ogni centomila abitanti, e un senatore ogni duecentomila circa. È già uno dei rapporti proporzionali tra eletti ed elettorato più bassi rispetto agli altri paesi d’Europa.
  3. La riduzione dei parlamentari limiterebbe molto la rappresentatività, penalizzando le formazioni politiche minori. La riduzione dei senatori penalizzerebbe le regioni meno popolose.
  4. Infine, si creerebbe uno squilibrio di forze al momento dell’elezione del Presidente della Repubblica, alla quale partecipano, oltre ai membri del Parlamento, cinquantotto delegati delle regioni. A fronte di un dimezzamento del numero dei parlamentari, il numero dei delegati regionali rimarrebbe immutato.

Il terzo punto del quesito, relativo ai senatori a vita, non rappresenta una modifica quanto, piuttosto, una precisazione, o una “interpretazione autentica”.
Secondo l’art. 59 cost. ”Il Presidente della Repubblica può nominare sentori a vita cinque cittadini che abbiano illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario.”
Nei primi decenni della Repubblica, questa norma era stata interpretata nel senso che non ci potessero essere, contemporaneamente, più di cinque senatori a vita di nomina presidenziale. Successivamente, è stata adottata per due volte una interpretazione estensiva, secondo la quale ogni Presidente della Repubblica può nominare fino a cinque senatori a vita, così che si è arrivati ad averne, contemporaneamente, ben di più.
La modifica sottoposta a referendum impone l’interpretazione più restrittiva, prevedendo che non possano essere contemporaneamente presenti in Parlamento più di cinque senatori a vita di nomina presidenziale.

Per i fautori del sì, la norma serve ad eliminare ogni dubbio di interpretazione. Avrebbe inoltre l’effetto di limitare la presenza in Parlamento di membri non eletti dal popolo, che non ne rappresentano gli interessi e che inoltre, sapendo di restare in carica a vita, non si curano di deluderne le aspettative.

Per i fautori del no, in questo modo si può arrivare a privare il Presidente della Repubblica di una sua prerogativa; se, all’inizio del suo mandato, ci sono già cinque senatori a vita designati dai suoi predecessori, egli può trovarsi nella condizione di non poterne nominare nessuno. Sarebbero anche penalizzati cittadini particolarmente meritevoli di questo riconoscimento, che non potrebbero ottenere per mancanza di posti.
È bene evidenziare, in conclusione, che il quesito referendario è unico; le tre modifiche devono essere approvate o rifiutate in blocco, anche se chi è favorevole al taglio dei parlamentari non lo fosse all’interpretazione restrittiva sul numero dei senatori di nomina presidenziale, e viceversa.

Dora Petrolino