Oggi la Repubblica italiana festeggia il suo 74° compleanno. È una festa in tono minore: non ci sarà, nella capitale, la solenne sfilata su Via dei Fori Imperiali, né si terranno le consuete manifestazioni nelle altre città; si faranno, al massimo, celebrazioni in sordina, con l’intervento di poche persone.
È una buona occasione per domandarci che cosa vogliamo, in realtà, festeggiare, e perché valga la pena di celebrare la nascita della Repubblica.
Solitamente, repubblica si contrappone a monarchia; la prima è un sistema di governo in cui il potere è esercitato, per un periodo limitato di tempo, da una o più persone cui è andata la fiducia degli elettori, mentre nella seconda è mantenuto, a vita o fino ad una eventuale abdicazione, dai membri di una dinastia.
Si suole anche dire che in una repubblica gli abitanti sono “cittadini”, cioè titolari di diritti e garanzie anche nei confronti dell’autorità, mentre in una monarchia sono “sudditi”, cioè soggetti, sottoposti. Ma questa distinzione, per lo meno nel momento attuale, non è più valida, perché diritti e garanzie nei confronti dell’autorità esistono anche nelle monarchie costituzionali, mentre sono in tutto o in parte negati in regimi non monarchici, come le dittature.
Per comprendere ciò che rende la repubblica preferibile ad altre forme di governo è bene, allora, andare all’etimologia della parola, il cui significato letterale è: cosa (in latino, res), pubblica: lo stato non è proprietà privata di una persona, o di un gruppo, ma è una cosa di tutti.
In una repubblica, e tanto più in una “repubblica democratica”, come è la nostra (art. 1 della costituzione), non si perseguono, o si privilegiano, gli interessi di particolari categorie; le risorse del paese sono di tutti; tutti possono accedere agli uffici e alle cariche pubbliche; la legge protegge tutti nello stesso modo.

Festeggiare la nascita della nostra Repubblica significa, allora, celebrare l’avvento di una forma di governo che ha dato ai cittadini libertà, diritti e garanzie che non esistevano, o che erano stati in varia misura conculcati, durante il regime precedente.

C’è, però, un aspetto su cui non sempre ci si sofferma abbastanza: la cura della cosa pubblica non deve essere solo di chi governa, ma di tutti. Ogni cittadino, come ha il diritto di usufruire di tutti i servizi pubblici, ha il dovere di contribuire al bene comune, sia partecipando alle spese per il funzionamento dello stato, sia fornendo, quando gli è richiesto, la propria opera, sia evitando di sciupare denaro pubblico, o di danneggiare il patrimonio di tutti.
Contribuire al bene comune significa, inoltre, rispettare le leggi o le indicazioni che vengono date nell’interesse della collettività.
Con riferimento al nostro paese, osservo che quanti sono nati dal 1946 in poi, non avendo conosciuto altri regimi, sono stati abituati sin dall’infanzia a vivere in un sistema di diritti e di libertà sempre più ampi, di cui hanno spesso non solo usato, ma anche abusato.
E così, anche nel momento di emergenza che stiamo vivendo, si nota un atteggiamento di esasperata concentrazione sui propri diritti. Molte persone manifestano insofferenza verso i provvedimenti emessi dal governo per contenere gli effetti della pandemia tuttora in corso. Le limitazioni alla libertà di movimento e alla vita sociale, che comportano un oggettivo disagio, vengono contestate, prescindendo dal giudizio sulla loro effettiva utilità, in linea di principio, perché considerate un attentato a diritti garantiti dalla costituzione.
Vorrei che questi “consumatori di diritti” si fermassero a riflettere che la libertà individuale non può arrivare fino a mettere in pericolo la salute, e anche la vita, degli altri, e che quindi si possono e si devono accettare alcune limitazioni in vista del bene comune. Solo chi si preoccupa di tale bene, e non si ferma a guardare il proprio particolare interesse, può dire di avere a cuore quella “cosa pubblica” che oggi vogliamo festeggiare.

Dora Petrolino