La fraternità cristiana ha le sue radici nell’amore di Dio, che Cristo ha reso visibile. La riflessione di Giaquinta ci immerge proprio nel mistero dell’incarnazione, visto come concretizzazione dell’amore eterno, infinito, assoluto che Dio Padre ha per ciascun uomo. Egli ha vissuto  in pienezza ciò che ha insegnato: questa testimonianza ha anzitutto un valore esemplare (“Vi ho dato l’esempio…”), ma ha una potenza trasformante nell’uomo, perché Cristo non si limita a salvare l’umanità dal peccato, ma la eleva, la conduce fino a Dio. Gesù si è fatto fratello di ogni uomo, perché ogni uomo possa scoprire di essere figlio di Dio e, unito a Cristo, fratello di ogni uomo.

Chi è che oggi non parla di amore? Il tema risponde ad una insopprimibile esigenza umana che trova le più differenziate espressioni ‑ da quella sensuale a quella romantica ‑ ma che al fondo forse è solo nostalgia di un amore iniziale perduto e che è rimasto in noi come piaga mai cicatrizzata.
Tutti parliamo di amore perché tutti ne siamo assetati, senza la possibilità di riuscire ad averne qualche goccia autentica, che valga cioè a dissetarci.
Forse è per questo che è diventato convenzione il parlarne e noi stessi non crediamo più alla forza reale di un amore che sappia essere fedele della fedeltà dell’immolazione.
Queste osservazioni, che possono apparire pessimistiche ma che invece descrivono la realtà, ci fanno correre il rischio di considerare come un ideale lontano e quasi un mito l’amore di Dio e di Cristo, di cui abbiamo parlato, con la conseguenza di togliere un qualsiasi contatto tra l’esempio di Gesù e la nostra vita umana.
E’ logico, in tal caso, che il parlare dell’amore umano modellato su quello di Cristo diventi discorso convenzionale o devozionale e che tutto scada al livello puramente emotivo.
Nasce da qui l’esigenza di riprendere il tema già sopra accennato e cioè il significato che Cristo dà al suo amore per noi. […]
Siamo stati oggetto di un amore non distante ma talmente vivo ed efficace che il Verbo eterno è arrivato a prendere la nostra forma umana velando ‑ S. Paolo dice: «svuotando se stesso» (Fil. 2, 7) – la sua essenza divina.
Ha assunto la nostra carne di morte e di peccato (anche se non il peccato), la nostra capacità di essere tentati e di soffrire; ha preso sopra di sé la nostra condanna a morte e si è ridotto ‑ come lo ha visto Isaia (53, 3) ‑ ad un uomo senza volto o, peggio ancora, ad un verme che striscia nell’obbrobrio (Sal. 21, 7).
E non che Egli non abbia sentito la pesante realtà di tutto ciò. La misteriosa agonia dell’orto e il pianto misto a grida profonde di cui ci parla l’autore della lettera agli Ebrei (5,7), ci mostrano un Dio più umano dell’uomo, perché dell’uomo ha voluto assumere tutta la umana debolezza. […]
La comprensione di Cristo verso l’adultera (Gv. 8, 3 ss.), la peccatrice di Sicar (Gv. 4, 5 ss.) e la donna condannata dal farisaico Simone (Lc. 7, 37 ss.), la preferenza del giovane Rabbi verso i pubblicani ed i peccatori, erano appunto l’effetto di questa divina condiscendenza verso la bassezza umana.
Ha voluto rendere credibile tale sua appartenenza alla nostra stirpe, assumendone tutte le esigenze di pesantezza e di sofferenza, anzi scegliendo la posizione meno comoda.
E’ nato povero, ha trascorso i suoi primi anni randagio e sconosciuto, ha vissuto di lavoro e di stanchezza come tutti i figli di Adamo, ha conosciuto, nella vita pubblica, la fame, la sete, la mancanza di un letto, il freddo pungente delle notti insonni, la contraddizione di avversari irriducibili, la mancanza di una libertà elementare e di uno spazio vitale, la incomprensione dei buoni, l’esaltazione fugace che sa passare dall’ «osanna» al «crucifige», l’abbandono degli amici e dei miracolati, il tradimento di Giuda.
Avrebbe, invece, potuto mostrare la sua ricchezza, la sua potenza, la capacità di dominare, la gloria del Padre! Ma allora non sarebbe stato più uno di noi, uno come noi. E, ciò che più conta, non avrebbe dato credibilità alle sue parole e al suo amore.
Per tutti è facile ormai recitare a memoria l’elenco delle beatitudini, i passi salienti del discorso della montagna. Possiamo ripetere anche noi ‑ e spesso lo facciamo fino alla monotonia ‑ che il grande amore esige la donazione sino alla morte.

Ma sulla nostra bocca queste parole rimangono parole. Non così per Cristo: Egli queste cose le ha prima vissute e poi ce le ha presentate. Ha saputo essere sempre coerente con il suo pensiero e il suo insegnamento. Amore dunque non di parole, ma di vita, anzi, di sangue e di morte.
Egli ci ha veramente amato ed è sceso tra noi e al nostro livello; ma non per lasciarci nel nostro stato di miseria e di peccato. Ci ha mostrato anzi che era appunto facendo leva sulla misericordia di Dio verso i poveri ed i piccoli, che l’uomo poteva salire verso l’alto e redimersi così, dietro di Lui e con Lui, dal suo peccato di origine, personale, sociale e strutturale.

L’amore di Cristo è andato in profondità e cioè all’anima del peccatore ed ha avuto come scopo la sua redenzione che abbraccia, in sostanza, i due momenti del ritorno del figliol prodigo: l’abbandono delle ghiande dei porci e l’amplesso di amore del Padre che ordina di preparare il bagno profumato, fa sgozzare il vitello grasso e vuole che ci siano cori e musiche (Lc. 15, 11 ss.).
Questo è l’amore che Cristo è venuto a portare tra noi ma che Egli ha dovuto pagare nella sua carne. Giacché era logico che tra questa visione nuova, e cioè di amore, e la struttura di peccato da cui Egli era venuto a liberare l’uomo dovesse verificarsi uno scontro frontale.
Non poteva Egli parlare di povertà, di purezza, di distacco di amore agli altri, di sete di giustizia e non provocare la reazione del peccato strutturale ‑ Giovanni lo chiama «mondo» ‑ che dominava l’uomo e che non poteva subire passivamente di essere scalzato senza reagire.
Cristo accetta lo scontro, non fugge e paga con la morte. Mostrerà così all’uomo che è possibile vincere il peccato, anche, se la vittoria va conquistata con la croce.
Sta qui l’amore di Cristo che, come abbiamo visto, è dominato dalla dialettica del massimo.
Poteva redimerci in infiniti modi e invece sceglie quello della totale solidarietà, dell’assunzione della nostra natura corrotta e cioè della nostra povera umanità.
Ma a questo punto Egli avrebbe potuto anche arrestare il suo pendio di condiscendenza. Era divenuto uomo, vittima, schiavo: era sufficiente perché l’uomo potesse trovare in Lui un esempio unico e una forza trascinante.
Sufficiente per noi, ma non per Lui.
Egli conosceva la nostra congenita e innata povertà e quindi non si è limitato a «diventare noi», ma ha voluto che noi «diventassimo Lui». Il battesimo, l’Eucarestia, la Chiesa come suo corpo misterioso, sono tre momenti indivisibili di questa vittoria totale dell’amore sul peccato che Cristo compie in noi, inserendoci nella sua realtà.
E’ da questo momento che tutto cambia prospettiva e l’uomo assume quasi una nuova natura. Egli, ormai come Gesù, è il figlio del Padre, può e deve abbandonarsi con assoluta sicurezza alla Provvidenza, ha la certezza dell’eterno, ha dei fratelli da amare, non uno solo dei suoi capelli può cadere giacché il Padre li ha tutti contati, non perde neppure il merito di un bicchiere d’acqua fresca data al fratello giacché in questi c’è sempre, in trasparenza, il volto del fratello maggiore, Cristo.
E questo fratello maggiore non è come quello della parabola lucana ‑ che contesta la bontà del Padre ‑ ma è lui stesso che, per primo, va in cerca del fratello smarrito, lo libera dalla schiavitù del padrone tiranno e arriva sino a dare la vita per lui.
L’ideale di amore che Cristo è venuto a portare e a incarnare tra noi è appunto questo. Non fatto dunque di parole o di gesti sociali, ma di profonda e sostanziale trasformazione della nostra umanità.
Ma l’amore umano, quello del buon samaritano, della compassione verso gli affamati e i doloranti, verso i nudi e i carcerati, di cui dovremo rendere conto nel giudizio finale?
E’ incluso nel primo e fondamentale amore verso l’uomo, giacché questi non è scomponibile in parti.
Rimane però sempre vero che mai potremo amarlo veramente e totalmente se prima non ci saremo scoperti fratelli. Solo Cristo può insegnarci questo; Egli che ha amato l’uomo, tutto l’uomo: non l’anima senza il corpo, ma neppure il corpo senza o prima dell’anima.
E questo Gesù lo ha fatto perché Egli era l’immagine umana dell’amore infinito del Padre.
Se il Verbo Incarnato ci ha amato così è perché tale è l’amore del Padre: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv. 10, 30). […]  (G. Giaquinta,L’amore è rivoluzione, 79-85)

Passi di fraternità

  • Gesù è il fratello universale: quale fraternità ci consegna? Umiltà, compassione, dono di sé…
  • “Ha voluto che noi diventassimo Lui…”: per noi oggi, in cosa si concretizza questa “trasformazione” cristologica?
  • Scoprire nell’altro, “in trasparenza, il volto del fratello maggiore, Cristo”: è una provocazione forte, che ci interpella sul nostro modo di vivere le relazioni.